Elogio dell’odio in Do… allegro ma non troppo
Io odio gli aghi. Odio gli ospedali, gli ambulatori e non ho gran simpatia per tutto il personale medico e paramedico, indipendentemente dalla loro bravura o professionalità. Così, a pelle.
Odio gli orari degli istituti di assistenza sanitaria, unico baluardo imprescindibile in un paese in cui persino Arlecchino e Pulcinella risultano giganti di serietà.
Mi ammorba l’odore dei corridoi, degli atrii, delle corsie, dei reparti e delle stanze dei nosocomi, vecchi e nuovi.
Trovo seccanti le attese, le file, le pause, i silenzi, gli sguardi che si trovano negli ospedali.
Detesto il contatto del laccio emostatico che serra il mio bicipite per pochi interminabili minuti.
M’infastidisce la sola idea che mi si punga il dito medio per verificare la percentuale di emoglobina nel mio sangue.
Per non parlare della morsa dello sfigmomanometro intorno al braccio, dove senti le pulsazioni cardiache salirti stringenti sù fino alla carotide, per rilevare una pressione arteriosa ogni volta, irrimediabilmente bassa, sempre al limite dell’idoneità.
Io non sopporto di veder estratto dall’involucro sterile quel nuovo scintillante ago da prelievo che ogni volta mi sembra più grosso.
Non ho mai visto le lancette dell’orologio muoversi così lentamente come quando sto disteso ad aspettare di raggiungere la quota di sangue stabilita. 8 minuti interminabili in cui puoi concentrarti e pensare a tutto ciò che vuoi, ma il tempo non passa mai.
8 minuti di respiri irregolari, fastidio fisico costante, impossibilità a rimanere immobili e un concentrato di tic nervosi a profusione.
Muoio ogni volta che quel maledetto ago grosso come uno stuzzicadenti mi viene infilato nella vena più bella del braccio (preferisco il sinistro). Il dolore è nulla in confronto alla visione di quell’horror movie di serie B.
Provo odio fisico ogni volta che mi si chiede nel bel mezzo di un prelievo se “va tutto bene?”. Sì, come no!!
Ma la cosa più intollerabile è il terrore che provo mentre sono disteso nel lettino con l’ago infilato nel braccio, con la convinzione che prima o poi accadrà che un’infermiera distratta inciampi nel turbinio delle sue mansioni e collida irrimediabilmente sulla cannula cui sono attaccato e strappi tutto provocando uno zampillio arterioso da film splatter.
Un brivido mi corre lungo la schiena alla fine di ogni prelievo, quando il grosso ago mi viene sfilato e mi si tappa il buco con un grande e coreografico cerottone.
Io odio donare il sangue.
Ma la donazione non ha niente a che fare con la logica. È qualcosa di più e di meglio.
Forse è per questo che da 17 anni, ogni sei mesi, mi reco nel centro trasfusionale del mio distretto sanitario.
E faccio quello che va fatto.
Stefano
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